Cerimonia in ricordo degli esuli istriani
Cerimonia in ricordo degli esuli istriani – 11 febbraio 2017 –
Aula Magna di via Ravasi, Varese
Durante la cerimonia ben organizzata nei tempi e nei contenuti, il pubblico è invitato a cantare l’inno nazionale di Mameli e poi il “va’ pensiero” di Giuseppe Verdi. Si canta sommessi, con un certo ritegno o pudore e non è per le eventuali stonature ma perché qui si fa sul serio e per una volta i due “inni” vogliono riportare l’attenzione al concetto di Patria, di Casa e soprattutto di Radici. Non si tratta di una partita di calcio; di certo la foga sarebbe stata tanta e tutti avrebbero urlato fratelli d’Italia….ma qui è più difficile perché la Storia è andata avanti e l’Inno, al di fuori degli stadi, ormai lo cantano solo i leghisti et similia…anzi addirittura il Va’ Pensiero è l’inno ufficiale di Radio Padania. Le autorità, tutte, parlano sobriamente e questo va a loro merito ma nei loro brevi discorsi, a parte l’invito reiterato ad adoperarsi in azioni concrete per non dimenticare, tutti, invariabilmente, figli dell’oggi, sottolineano l’importanza dell’Europa unita che in realtà tutti sappiamo (e soffriamo) tendere all’omologazione dei membri che la compongono e alla necessità obbligata, pare, di regole uguali per tutti i popoli, qualsiasi sia il loro carattere, latitudine, storia.
Dicevamo che parimenti però, oggi, si ricordava lo strazio dello sradicamento, il dolore di chi, non per scelta o professione, deve abbandonare tutto ciò che ha di più caro, si parli pure dello skyline al quale si è abituato fin da piccolo aprendo la finestra della propria stanza ogni mattina. Piazze, strade, abitudini, amori, professioni, odori, tradizioni, amici, conoscenti, abitudini, luci ed ombre, sogni…a volte capita di lasciare tutto per scelta ma quando sei obbligato, pena la morte, e che morte (vedi foibe)…ecco che allora il concetto di Patria, Casa, Radici torna al suo valore di sempre, quello delle “mie cose”, dei “miei posti” e sembra di percepire nel pubblico che partecipa alla cerimonia, un consenso.
Sì, è giusto e sacrosanto anche il senso del “mio” che invece i progressisti moderni, soprattutto quando parlano degli altri e non di sé, paiono disprezzare: che diamine! Siamo figli del mondo! Non vorremo mica rinchiuderci…
E allora come si fa, come si coniugano parole e concetti che invitano al sacrificio delle proprie tradizioni, gusti, feste, abitudini per far posto all’altro (e chissà chi è che fa posto a noi…) e la legittima e sensata richiesta di NON dimenticare la Patria, le Radici, la Casa di tanta gente uccisa nell’anima e spesso anche nel corpo?
Come pronunciare parole di pietà e consenso per il passato e poi invitare ad un consenso europeo che tenta giorno dopo giorno di erodere il patrimonio che ci consente di dire “siamo italiani”…
Io penso che le violenze all’uomo e alla sua identità si siano solo spostate di livello; penso che la guerra ci sia, anche se sotterranea; che non sia vero che viviamo in pace da più di sessant’anni; certo mio figlio non ha dovuto immolarsi per la Patria in un malinteso senso del concetto di Patria. Guerre di dominio dei territori, (a beneficio di chi?), richieste e imposte da pochi nel passato e a detrimento dei più e oggi “guerre” che impoveriscono culture, tradizioni, slanci creativi delle imprese del commercio, dell’artigianato e delle amministrazioni; “guerre” ideologiche che castrano le tradizioni religiose e di espressione della propria cultura per un beneficio, davvero malinteso, per gli “altri”…
Non vedo niente di buono all’orizzonte. Forse muoiono meno persone ma il mondo obbligato a conformarsi apre ad una morte molto peggiore di quella dei corpi: la morte della curiosità, dell’individualità, del coraggio personale, delle idee che producono il cambiamento spontaneo della società, di una società, senza che si debba omologarsi.
L’ignoranza diffusa e flemmatica è la diretta conseguenza del “tanto ci pensano a Bruxelles”. Perché darsi mai da fare? L’individuo non è più apprezzato in sé ma soltanto se parte di un gruppo o comunità e per carità non si parli mai del successo di uno ma di quello di tutti.. tutti sono meritevoli in ugual misura.
A quando la libertà di abitare dove si vuole, di lavorare dove si vuole, senza che sia un problema il colore della pelle di alcuno purché partecipi serenamente alla vita che trova laddove vuole vivere?
Più si inneggia agli uguali diritti per tutti più ci si trova nella necessità di ergere barriere. Perché in verità il concetto vero e non razzista di uguaglianza non è ancora nelle menti degli uomini se non di pochissimi.
Le barriere, gli stupri dei popoli e la necessità di sottomettere non finiranno finché vediamo nell’altro un altro. Finché non capiremo che l’unica cosa alla quale sia necessario guardare è il comportamento e non la provenienza. Siamo ancora esuli, il vento ideologico vuole spingerci, tutti legati uno all’altro come nell’orribile, atroce, indegno rito delle foibe, verso un medesimo vivere/morire.
W la patria, w la casa, w le radici
Ovunque esse si trovino, ovunque le vogliamo trovare e piantare.
Potremmo vivere nella ricchezza della vera convivenza e ci troviamo sempre daccapo a difenderci. E se ci dobbiamo difendere è perché pensiamo di essere attaccati e il giro ricomincia.
Invoco quindi non solo che “si ricordi” il male del passato, ma che l’Europa cambi registro.
Che a Bruxelles si occupino di aspetti commerciali che certo necessitano di qualche regola ma, pensiamoci, nell’era dei social e della comunicazione libera che non concepisce frontiere e barriere, che senso ha parlare di Europa. L’Europa avviene. Non ha nessun bisogno che esista qualcuno che regolamenti la creatività, le tradizioni, le abitudini e i gusti delle singole nazioni che, come sempre è avvenuto, continueranno a scambiare le loro idee più avanzate con chiunque ben sapendo che la società muta del tutto naturalmente e non sotto dettatura.
(ho ben scritto: dettatura…)
Nessun commento
Puoi essere il primo a commentare questo articolo!