“Discorso di presentazione di una raccolta di racconti edita” di Alfredo Tocchi

“Discorso di presentazione di una raccolta di racconti edita” di Alfredo Tocchi

tratto da “La principessa del carnevale di RIO”  – Aracne editore.

Quattro anni fa, alla presentazione di “Tra un anno sarò felice”, ero ancora un uomo appena consapevole di quanto mi era successo. Citando Emil Cioran, un autore che amo immensamente per la sua intelligenza, incominciavo ad intuire che la malattia mi aveva mutato per sempre – e un po’ me ne stupivo: “Se le malattie hanno una missione filosofica, non può essere che quella di mostrare quanto sia illusorio il sentimento dell’eternità dell’esistenza e quanto fragile il sogno di un compimento della vita… Le sofferenze ci legano a realtà metafisiche che un uomo normale e in perfetta salute non capirà mai.” (Emil Cioran, Al culmine della disperazione). Dopo il risveglio dal coma, ho trascorso sette lunghissimi mesi sdraiato sopra un divano. L’operazione al cuore mi aveva reso malato, io che in verità stavo per morire perfettamente sano – a causa dell’ischemia cerebrale. Il mio cardiologo diceva alla mia prima moglie che ero soltanto depresso, colpevolizzandomi e spingendomi – al colmo della vergogna – a lasciare la mia casa, a abdicare dalla mia vita. E’ facile dire una parola di troppo. Se a dirla è un luminare della medicina, quella parola viene accolta come il verbo. E il danno è fatto. Avevo perso tutto e la mia sensibilità mi faceva vibrare come una corda tesa, tutto il mio essere era sconvolto da quell’orribile perdita delle sicurezze e delle illusioni. Avevo capito di non essere padrone del mio Destino, era di una chiarezza accecante che nonostante tutti i miei sforzi per costruire la mia vita, tutto poteva essere spazzato in un istante. Se tutto può essere perso così, che valore può avere la vita? Che senso hanno le nostre conquiste, così effimere, così fragili? La letteratura mi è stata di aiuto. Leggendo Il vecchio e il mare di Hemingway, ho riflettuto sull’estetica della lotta. Lottare ci rende uomini, soprattutto quando siamo consapevoli dell’inutilità della lotta. Io ero ancora un uomo, anzi ero più che mai un uomo, liberato dai semplicistici pregiudizi sul mondo, la fede, le passioni. Dovevo trovare una valvola di sfogo: la consapevolezza brucia. Il mio nucleo era rovente. Così, istintivamente, ho iniziato a scrivere. La scrittura ha una funzione catartica: quando il dolore è talmente forte da isolarci dal mondo, è nella scrittura che cerchiamo un rifugio. Perché scrivere ci costringe a riflettere e riflettere (e comprendere, come dice Oscar Wilde nel De profundis) è già accettare. E cos’altro possiamo fare se non accettare il nostro Destino di uomini mortali? Dove possiamo fuggire? Inoltre, scrivendo lanciamo un disperato messaggio nella bottiglia a un’indistinta umanità capace di comprenderci, di essere al nostro fianco, di condividere la nostra sofferenza. Ho scritto molte pagine sul dolore, non farò l’errore di citarmi. Altri hanno scritto – molto meglio – le stesse cose. Paul Auster, un autore che amo per la sensibilità così simile alla mia, ha incominciato a scrivere in prosa dopo la morte del padre. “Dal dolore, la parola.”

Oggi, sono un uomo lucidamente consapevole. Ho elaborato la perdita di me stesso – di quel me stesso che conoscevo e che ho perso con il coma. Qualcuno di voi, magari distratto o annoiato, potrà scambiare la mia lucidità per disperazione. Niente di più falso. Nella persona equilibrata, la comprensione non porta disperazione, ma accettazione. Altri, fraintendendomi, penseranno che se la vita dell’uomo è tanto esposta agli scherzi del Destino, tanto vale non costruire nulla. Il fatalismo è l’errore più comune. Un errore che io non ho commesso. Parafrasando Borges, dirò che la vita di ciascuno di noi è scritta sulla sabbia: nulla resta – almeno di norma – e ogni onda può cancellarci per sempre. Eppure, scrive Borges, l’uomo deve vivere come se stesse scrivendo sulla pietra. La vita passiva e rinunciataria del fatalista, non fa per me. Io scelgo la vita attiva e disperatamente eroica del vecchio e il mare. Vi invito a riflettere: quante volte, durante un viaggio, avete provato un senso d’improvvisa liberazione dai fardelli della vita quotidiana, un’improvvisa felicità? Se foste rimasti a casa, a crogiolarvi nella vostra depressione, vi sareste persi quell’inaspettata felicità. Lo stesso capita davanti all’arte, alla bellezza, alla poesia. Tra non illudermi e illudermi, ho scelto d’illudermi. Di essere uno scrittore, naturalmente. Vedete, in me non c’è la disperazione di un Céline o di un Kafka. Io non vedo tutto nero, non odio la vita. Io so che esiste tutta una gamma di contrasti e di sfumature e li osservo senza disperazione e senza esaltazione vitalistica. Ragioniamo per opposti, è uno dei temi ricorrenti nei miei scritti: senza il dolore non si comprenderebbe la gioia. Sono agnostico, per me la vita è l’unica occasione, la nostra dimensione. Prima e dopo non c’è nulla o, se c’è qualcosa, non c’è l’uomo. Tra il nulla e l’essere uomo io scelgo essere uomo. Ho provato molte volte l’ebbrezza del suicida, ho vissuto molte volte l’attimo in cui si è tentati di farla finita. Ma disperazione e esaltazione sono estremi che non mi appartengono, entrambi in egual misura patologici.

Vivere con questa lucidità, pericolosamente vicino all’abisso della piena consapevolezza, è difficile. Il problema è la conoscenza. Come Cioran, credo che la conoscenza sia pericolosa. L’idiota non comprende il significato delle proprie azioni, non conosce legge né morale. L’umanità è spaventosamente idiota, assurdamente presuntuosa, testardamente convinta di somigliare a un Dio. Ma Dio non esiste e, se esiste, sa che Dio e uomo non si somigliano affatto. Dio è forse l’insieme delle leggi che regolano l’universo (così almeno la pensava Einstein). L’uomo moderno sembra essersi allontanato dalle proprie caratteristiche positive: unico essere vivente con un’aspirazione ideale a migliorare il mondo, con in sé un’idea di come la terra potrebbe essere un luogo mille volte più accogliente, si limita ad accettare la realtà. E’ paradossale che gli unici individui con una forte spinta ideale siano oggi estremisti assetati di morte. La conseguenza è che stiamo distruggendo tutte le altre forme di vita e il nostro pianeta, in un’orgia di demente moltiplicazione della specie. I barbari sono alle porte, di questo passo, l’autodistruzione è una certezza. La terra – vista dalle sonde spaziali – è il piccolo puntino di luce blu descritto da un altro grande scienziato del ventesimo secolo, Carl Sagan. Nulla di più. Noi siamo infinitamente piccoli, insignificanti distruttori di quel puntino blu, mentre avremmo in noi le capacità per trasformarlo nel giardino dell’Eden che sappiamo immaginare. Eppure, qualcuno di noi – consapevole dell’unicità, della straordinaria, incredibile bellezza di quel puntino blu – ci ha avvertito. Penso ai tanti ecologisti illuminati come Yann Arthus – Bertrand, per me un mito vivente.

Con queste premesse, qualcuno di voi – quelli che non li hanno letti – penserà che i miei racconti che presento questa sera siano tristi. Ci sono persone che evitano qualsiasi cosa possa incrinare la loro ottusità. Anche questa è una forma di difesa. Così leggono unicamente racconti per ritardati mentali e guardano soltanto trasmissioni televisive imbarazzanti per la loro stupidità. Chi è così, continui a esserlo. Non sono né un profeta né un venditore. In verità, non ho nulla da predicare e nulla da vendere. Ciò che propongo è la condivisione di una lettura, della mia lettura del mondo – magari sbagliata, magari riduttiva o al contrario esagerata, ma unica. Ciascuno di noi è unico, ma ciò che rende interessante leggere uno scrittore piuttosto che un altro è il contributo che porta alla comprensione del mondo. E soltanto gli scrittori sinceri, quelli che hanno davvero sofferto e hanno il talento per comunicare le loro sofferenze, arricchiscono il lettore. Il resto è manierismo, recita, finzione o, nella migliore delle ipotesi, semplice intrattenimento. Conosco molti scrittori. Alcuni sono bravi, ma non hanno nulla da dire. Manca il messaggio artistico, mancano quelle che un grande scrittore, Richard Yates, chiamava le finestre – le frasi che fanno luce sull’uomo. Io so che oggi tutto è inutile. Per essere precisi, so che tutto è sempre stato inutile, dalla notte dei tempi ad oggi. L’unico senso della vita, è la prosecuzione della vita stessa. L’unico senso della lotta, è nell’estetica della lotta – ancora più eroica quando l’uomo sa che è inutile. So che tutto porta inevitabilmente al nulla, alla morte. Subisco quella che Emil Cioran chiamava la fascinazione della cenere. Ma tra me e altri grandi nichilisti (Céline, Kafka), come ho già accennato, c’è una profonda differenza: io amo la vita. Agnostico, credo che sia tutto che abbiamo, tutto ciò che avremo. Non credo in Dio – e dunque nel peccato – ma credo che sprecare la vita sia un peccato capitale. E’ una filosofia opposta a quella di Dino Buzzati – che detesto come uomo e come scrittore – secondo il quale una vita sprecata può essere nobilitata da un solo gesto di coraggio in punto di morte. Io quel gesto di coraggio l’ho compiuto: sono entrato in coma sorridendo e non potevo sapere che mi sarei risvegliato. Amo la vita, sono consapevole della morte e credo che il male di vivere possa essere alleviato dalla condivisione e dall’amore. Amore umano. Infatti, lo sapete, mi sono risposato. In questo senso sono un romantico, proprio come Andrei Makine, lo scrittore contemporaneo che preferisco.

Ho citato grandi autori, ho avuto – per una sera – il coraggio di rivelare che io mi sento al loro fianco. Certo, loro sono i grandi generali della letteratura, io un piccolo ignoto fante. Eppure, sento l’orgoglio per il mio piccolo insignificante apporto all’avanzata della letteratura. Se questa sera fossi davanti al re di Svezia, non pronunzierei un discorso diverso da questo. Di nuovo, è una questione di sincerità. So che in molti mi faranno a pezzi, che le critiche – come al solito – saranno all’uomo e non ai racconti. Nonostante i personaggi dei miei racconti siano indimenticabili. Penso a Silvio Della Rocca, alla principessa del carnevale di Rio, a Pavel Kisselyov, al Professor Mario Battisti, a Chicca, a Carlo e a tutti gli altri. E’ il rischio di chi osa esporre il proprio lavoro, soprattutto quando in quel lavoro ha messo tutto se stesso. Io non ho paura, chi si è risvegliato dal coma non ha più nulla da temere. Ho sognato tante volte di diventare piccolissimo, di perdermi, non più grande di un puntino, in un enorme tunnel di luce. E’ così che si spegne il cervello: una galleria di luce che tutto inghiotte. Una cecità bianca – come nel capolavoro di José Saramago. L’ho provato, non ne ho più paura. Una luce, poi più nulla. E’ così che finirà la vita, il piccolo puntino di luce blu scomparirà, assorbito dall’immensità eterna di una luce. Dell’intera umanità non resterà che il messaggio affidato a una sonda sopravvissuta e vagabonda dall’equipe di Carl Sagan, il messaggio “Noi eravamo così. Non c’incontreremo mai, ma siamo esistiti. Ci sentivamo soli nell’universo, e abbiamo cercato di comunicare con sconosciuti amici”. Il messaggio più semplice, sincero e banale. Quello lasciato da ogni artista.

Commenti

  • Giovanna de Luca Giovanna de Luca Aprile 02, at 17:10

    Caro Alfredo, ho letto con grande partecipazione, anche questa volta.
    In due punti quello che scrivi mi calza come un guanto: quando parli di “perdita delle sicurezze e delle illusioni” e quando ricordi che lottare sapendo di perdere ci rende “uomini”, e nobili.
    La seconda cosa nasce dalla prima, ed è poi il punto d’arrivo del pensiero leopardiano (La Ginestra)
    Io non sono tanto agnostica quanto te, anzi, la mia fede è fatta di speranza, né ho sofferto quanto te (la perdita di persone amate è esperienza comune), però non vedo altra via che dia un senso alla nostra vita se non l’operare positivamente, credendo nonostante tutto nelle gioie che può darci, e accettando il Mistero. Con fraternità Giovanna

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