Gli occhi di vetro
Questo racconto ha vinto il Concorso “Il Pennino d’Oro” 2008 – Sezione Narrativa
di Aleksandra Damnjanovic D’Agostino
La finestra guardava verso il cancello d’entrata e un vecchio pino.
Lei era seduta con la testa appoggiata contro il vetro della finestra, e aspettava. Ogni tanto alzava lo sguardo verso il cancello. Aveva la fronte sempre fredda, anche il naso, entrambi schiacciati e deformati da una posizione così poco comoda. Persino il corpo aveva assunto una strana forma di chiocciola. Le mani erano una nell’altra, abbandonate sulle ginocchia, e stringevano il rosario.
Nessuno di noi è mai riuscito a capire come faceva a rimanere in quella posizione dalla mattina alla sera. Non si spostava neanche per mangiare. Il cibo lo mettevamo sul davanzale della finestra, come ci chiedeva.
Il momento più doloroso della giornata era quando la portavamo a letto. Si teneva forte alla maniglia della finestra, quasi con intenzione di strapparla e portarla con sé nel letto, urlando delle parole poco comprensibili e piangendo disperatamente.
Ancora adesso, al ricordo di quel suo pianto rauco, mi vengono i brividi.
Ero di turno quella mattina, quando l’hanno portata all’Istituto. Per puro caso toccò a me riceverla, darle il benvenuto, accompagnarla nella stanza e farle conoscere il personale e i compagni del reparto. Ci siamo piaciute a prima vista. Io nei suoi occhi trovai qualcosa di familiare, quella tenerezza che aveva nello sguardo anche mia nonna, a cui ho voluto molto bene. Lei, in me, trovò una futura complice e consolatrice. Ci univa l’amore per la musica classica, il teatro, la poesia e la letteratura. Mi raccontò che da anni suonava il pianoforte – un’altra delle sue passioni – tutti i giorni, ma che negli ultimi mesi aveva dovuto rinunciare a quell’immenso piacere a causa della sua artrosi. Il dolore acuto le impediva di suonare.
Muovere le dita delle mani le provocava un’insopportabile sofferenza.
L’artrosi aveva attaccato anche le sue fragili ginocchia e così aveva dovuto smettere con le lunghe passeggiate nel parco. I primi tempi usava un bastone per aiutarsi, ma poi aveva iniziato a cadere sempre più spesso e il pericolo di farsi male rischiava di concretizzarsi, così sua nipote le procurò una carrozzina e successivamente decise di trovarle posto in una Casa di riposo.
Viveva da sola in un piccolo bilocale nella periferia di Milano. Quando rimase vedova decise di trasferirsi: si spostò dal grande appartamento nel pieno centro della città al più piccolo bilocale in periferia. Si era innamorata del parco che c’era lì di fronte, e con i soldi che possedeva poteva vivere spensierata fino alla fine dei suoi giorni.
La signora Liliana non aveva figli. I suoi unici parenti erano la nipote Mila e il marito di lei, Davide. Dopo la morte improvvisa e prematura della sorella, lei e il marito avevano deciso di occuparsi di Mila, che all’epoca aveva soltanto quattro anni. Mila, per loro, era come una figlia, forse di più.
“Verremo a trovarti tutti i weekend, non ti preoccupare zia, sai quanto ti vogliamo bene”.
“Anche io ve ne voglio, cari miei figlioli. Abbiate cura di voi. Non vi stancate troppo con il vostro lavoro. Mila, prepara ogni tanto a Davide una di quelle ricette che ti ho insegnato, vizialo un po’. Dovete trovare il tempo per voi stessi, la vita è imprevedibile”.
Quella fu la prima e ultima volta che vidi l’avvocato Mila Sartori e suo marito. Ai numeri telefonici lasciati in cartella non rispondeva mai nessuno, sembravano inesistenti. Ogni primo del mese arrivava regolarmente in Direzione l’assegno per la rata mensile. Per il direttore quello era più che sufficiente.
La signora Liliana era un’ottantenne molto allegra e socievole, sempre ben vestita e truccata. Ci ha trasmesso il suo ottimismo e lo spirito con il quale accettava la vecchiaia e la malattia. Era molto religiosa. Non si separava mai dal suo rosario in legno. Lo comprò durante un pellegrinaggio a Lourdes, dove conobbe suo marito Stefano.Di Stefano poteva parlare per ore e ore, lo amava tanto. Poteva parlare per ore e ore anche di Mila.
Il primo weekend passò in attesa di Mila e Davide, ma senza una particolare preoccupazione. Quando non si presentarono neanche il secondo weekend, le sue guance iniziarono già a cambiare colore. Diventò con il passare del tempo sempre più pallida, l’azzurro dei suoi occhi imprigionava l’ombra di paura e di dubbio.
Trascorse il terzo weekend in carrozzina davanti al cancello d’entrata. Era più che sicura che si sarebbero presentati, che le settimane precedenti erano solo stati presi da qualche impegno o viaggio.
Ma perché non mi hanno avvisato? – si chiedeva da sola – Senz’altro è successo qualcosa. Mila è così precisa. Mi avvisava sempre dei suoi progetti. Senz’altro è successo qualcosa!
Passò un mese nel frattempo, e non c’era anima viva in tutta la Casa di riposo che non conoscesse a memoria il numero telefonico di Mila. Lo ripeteva a voce alta giorno e notte, ci supplicava di chiamarla, urlava con la segretaria per il mancato contatto, si arrabbiava con il direttore…
Allora iniziò a piangere e a litigare con tutti. Qualsiasi cosa le dava fastidio, tutti erano contro di lei, vedeva ovunque una specie di complotto.
Era certa che la sua Mila telefonava e che non le passavano le telefonate per delle ragioni a lei sconosciute.
Iniziò a mangiare poco. Non le interessava più niente. Anche con me, nonostante il nostro rapporto particolare, non voleva più parlare. L’unica cosa che mi diceva era “Hai chiamato Mila? Cosa ha detto? Viene o no questo weekend?”
Avevo gli occhi pieni di lacrime tutte le volte che uscivo dalla sua stanza. La malattia avanzava rapidamente e deformava le sue mani e i suoi piedi, via via sempre più rattrappiti. Mi faceva pena in quei vestiti, le camicie da notte molto eleganti stavano diventando troppo grandi per il suo minuscolo corpo. Lo sguardo era assente, come se guardasse in continuazione un orizzonte visibile solo a lei.
Non riesco a ricordare bene il giorno in cui mi chiese di portarla con la carrozzina davanti a quella finestra che guardava verso il cancello d’entrata.
“Lasciami qua” – disse – “Ti chiamerò quando finisco di pregare”.
Ho tentato più volte di portarla via. Inutilmente. Lei si arrabbiava, mi scacciava, protestava. “Non mi interrompere nella preghiera. E’ peccato di Dio. Vai via!”
Da allora nessuno di noi ha avuto più il coraggio di interromperle il momento della preghiera. La finestra diventò la sua migliore amica. Ci si appoggiava sopra come si fa con la spalla della persona amata. Le regalava i suoi racconti, le sue preghiere, le sue lacrime, i suoi sorrisi, le sue solitudini. E soprattutto le sue lunghe attese dell’arrivo di qualcuno.
Lei e la finestra divennero una specie di mondo parallelo a quello già particolare delle Case di riposo. Gli altri ospiti la osservavano in silenzio, senza commentare. Nei loro sguardi c’era rispetto verso quell’immenso dolore che avevano davanti, ma anche paura.
Paura che la loro già insopportabile solitudine possa da un giorno all’altro tramutare in quella pazzia che caratterizzava la sofferenza della signora Liliana.
“Poverina, quanto soffre. E’ possibile che nessuno, proprio nessuno riesce ad avvisare la nipote?” – ha commentato un giorno uno degli ospiti.
“La nipote è in America” – ho sentito rispondere a una voce maschile, profonda. Era la voce del direttore che a quell’ora di solito passava e si soffermava a chiacchierare con gli ospiti.
E così tutti scoprimmo la verità e con essa dentro di noi si spense anche l’ultima speranza, cioè che sua nipote Mila si sarebbe presentata di lì a breve.
Io, nella mia testa, intanto già pensai un piano per risollevare la situazione.
Non sono sicura che si trattasse solo di una coincidenza, ma proprio quella settimana il caso volle che il figlio della mia migliore amica si trovasse negli Stati Uniti per affari. Appena rientrata a casa dal lavoro, chiamai Michele con la scusa che mi serviva qualcosa da New York.
“Pronto, Michele? Si tratta di una questione di vita o di morte! Mandami una cartolina indirizzata alla Casa di riposo, per la signora Liliana Vanetti. Devi scrivere in stampatello:
CARA ZIA,
SCUSA SE NON MI SONO FATTA SENTIRE PRIMA, MA TUTTO E’ SUCCESSO COSI’ IN FRETTA… HO ACCETTATO UN LAVORO IMPORTANTE PER UNA DITTA INTERNAZIONALE E SONO MOLTO SODDISFATTA. NON TI PREOCCUPARE, APPENA TORNO A MILANO PER LE VACANZE MI FARO’ VEDERE.
TI SALUTA DAVIDE.
UN BACIO,
TUA MILA”.
Ho raccomandato a Michele di non dirlo a nessuno. “Sarà il nostro piccolo segreto, poi ti spiegherò. Grazie.”
Dopo esattamente una settimana arrivò la cartolina. La portò Paola, l’assistente sociale.
Manuela, la mia collega, ed io eravamo presenti, nel salone, e stavamo distribuendo la terapia agli ospiti prima di pranzo.
Le lunghe e nodose dita delle mani della signora Liliana strinsero a lungo la cartolina prima che lei si decidesse a leggerla. Poi la girò di nuovo, la lesse di nuovo e cosi non so neanche io quante volte.
Allora, come uscita da un sogno, si accorse della nostra presenza, si voltò verso di noi, e sorrise. I suoi occhi azzurri erano pieni di lacrime e di gioia insieme.
“Lo sapevo! Lo sapevo che la mia Mila non mi avrebbe dimenticata” – ripeteva con la voce tremolante – Ti ringrazio, signore, hai ascoltato le mie preghiere, adesso posso anche morire. Sandra” – mi disse visibilmente commossa – “Portami in cappella, per piacere, voglio accendere una candela. A proposito, cosa c’è di buono per pranzo?” Fu come quando dopo una lunga e cupa pioggia all’improvviso spunta il sole e riscalda anche gli angoli più nascosti della casa.
Il sole negli occhi della signora Liliana ha iniziato rapidamente a riscaldare tutte le cellule del suo organismo e, dopo solo un giorno, il suo viso già splendeva di primavera.
Dalla finestra non si staccò ugualmente, solo che adesso si sedeva con una postura diversa: la schiena bella dritta e la fronte alta e dignitosa. Con lo sguardo curiosava tutto quello che succedeva fuori, con la voce spensierata e allegra commentava.
Tutti noi, come all’inizio al momento del suo arrivo, divenimmo parte di quell’entusiasmo e di quella cambiata prospettiva. Ci trasportava la corrente del suo ritornato ottimismo, eravamo osservatori, ma anche partecipi nello stesso tempo.
Mi ricordo che un giorno mi chiese persino di portarla nel salone al primo piano, dove c’era il pianoforte: rimase lì davanti in carrozzina quasi due ore, tentando di sciogliere le sue dita rattrappite e ammalate.
Questo attirò immediatamente l’attenzione degli altri ospiti che si misero seduti in fila ad ascoltarla come ad un vero concerto. Alla fine la premiarono con un lungo e caloroso applauso.
Dopo una settimana si ammalò all’improvviso e non si alzò più dal letto.
“Polmonite bilaterale e tromboflebite profonda della gamba sinistra” – ho sentito due dei nostri medici mentre parlavano tra loro – “Non ci voleva, e poi alla sua età chi sa se c’è la farà”.
La finestra della sua camera guardava verso la piccola cappella che si trovava vicino la chiesa. In tutto: una parte del tetto, la croce e uno spicchio di cielo. Guardava sempre fuori dalla finestra, in silenzio, quel quadro incompleto che i colori del cielo ogni giorno dipingevano in un colore diverso, dando a tutta la stanza una luce e un’atmosfera diverse.
Non c’era la tristezza nel suo sguardo, né l’indifferenza. Era lo sguardo di qualcuno che sente l’avvicinarsi della morte ma che accetta quella morte, senza i rimorsi e la rabbia.
Io ero particolarmente affascinata da quella sua pace interiore. Dopo il turno, andavo a trovarla e rimanevo tanto tempo accanto a lei. Tenevo la sua fragile mano nella mia e le leggevo le poesie di Prévert, Byron, Lorca, Dickinson. Lei mi sorrideva e ogni tanto sussurrava “Bello, veramente bello!”.
Le facevo sentire le musiche di Mozart, Beethoven, Tchaikovsky. A volte sentivo le sue dita muoversi dentro la mia mano al ritmo di musica. C’era in lei ancora così tanta vita.
Da quando aveva ricevuto la cartolina, non aveva più parlato della nipote.
Quella sera mi aspettava con la domanda sulle labbra: “Ha per caso chiamato la mia Mila? Promettimi Sandra che, se dovesse succedermi qualcosa, troverai il modo di avvisarla”.
Ho dovuto farle questa promessa.
Allora fece un profondo sospiro, chiuse gli occhi e mi disse: “Non ti offendere, stasera vorrei rimanere un po’ da sola con me stessa. Ci vediamo domani. Buona notte, cara”.
La collega che era di turno quella notte giurò di non aver sentito niente e che, facendo il solito giro attorno alla mezzanotte, l’aveva trovata nel letto, che dormiva tranquilla. Insomma, non poteva camminare, non c’era pericolo che potesse uscire dalla stanza!
La signora Liliana Vanetti fu trovata morta nel salone del primo piano, con la testa appoggiata alla tastiera del pianoforte. Con le mani stringeva il suo rosario, la fotografia di Stefano e la fotografia di Mila.
Della cartolina di New York si è persa ogni traccia. Non l’abbiamo trovata né durante l’inventario delle sue cose personali, né durante le pulizie della stanza.
Mila Sartori è stata avvisata della morte di sua zia con un telegramma. Delle vicende che riguardano il funerale si è occupata una sua lontana cugina, che aveva già in passato preso accordi con Mila in tal senso.
La finestra sulla quale si era appoggiata per tre lunghi mesi ancora adesso porta il suo nome.
Dietro il vetro sono rimasti i suoi occhi, ad aspettare.
Questo racconto si ispira a una storia realmente accaduta, anche se i nomi sono ovviamente di fantasia.
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