In concorso: “I funamboli”
“…Fila la lana, fila i tuoi giorni, illuditi ancora che Lui ritorni – libro di dolci sogni d’amore, chiudi le pagine sul tuo … dolore.”[1]
Io mi trovo esattamente in cima alla fune: le luci del circo puntate su di me e l’attenzione degli spettatori fissa sui miei piedi di mago.
Mi sono fatto ricamare motivi orientali, che riecheggino voci e profumi di Spagna, sulle mie scarpe di pelle bianca. Aspetto di procedere.
Mi muovo sollevando la gamba destra, quella che resta in ombra, e poso l’avanpiede con un passo di danza. Le mie gambe rese muscolose dall’esercizio, sono affinate dalla calzamaglia lucente di brillantini che mi copre fino al torace, lasciando intravedere il petto piuttosto villoso.
A me non piace, ma a lui, ricordo, piaceva molto e così, anche dopo essersene andato, mi ha lasciato questa eredità di scena. Mi muovo tra le luci e la musica dei ballerini africani e sogno veramente di volare. Più forte è il ritmo del tamburo dei Negri, più in alto tendo le mie braccia al cielo che vedo, nonostante il tendone arancione: questo, che mi da le vertigini, più che la distanza da terra.
Procedo dunque, un passo dopo l’altro come d’uso – senza alcun timore – ho padronanza del mio corpo esercitato da mille cadute sulla rete. Ora non lavoro più così. Il mio numero dura dieci minuti, ma potrei percorrere questa biscia di spago in tre minuti e venti secondi, ma devo creare un diversivo per chi viene e trattiene il respiro per me: vogliono vedere se morirò o se cadendo me la caverò – avvezzo all’esercizio – oppure se, come sempre, giungerò a toccare l’altro estremo della tenda, dove una ragazza dai capelli scuri mi tende le braccia.
Il suo vestito è bianco e oro, le sue scarpe basse a punta si intonano al suo naso così femminile. Hanno appeso alle sue spalle due ali di cartone. Sorride a me e alla folla ma io non ci bado, continuo a camminare finché penso che ormai è tardi ed è ora di ballare. Così inizio a volteggiare nell’aria senza perdere il controllo della fune. Mi cade l’orecchino di perla, mentre i miei capelli ricci sono mossi dal ritmo della mia rappresentazione interiore, poi guardo la folla laggiù, lontana mille notti e come ubriaco, guardo il cielo mentre la tenda non c’è più: riesco a vedere la luna estiva e la sua faccia dalle mille promesse. Uno slancio disperato di amore verso di lei e sono libero. Getto il papillon a terra prima del mio corpo
[1] Fabrizio De Andrè – “Fila la lana”
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