“L’è pena rivaaa” di Giovanni Zappalà
1955. Presso l’ “AERONAUTICA MACCHI”, a Varese.
Nei mesi freddi, con la pioggia o talune volte con la neve, era giocoforza durante l’intervallo del mezzogiorno fermarsi alla mensa posta, per chi da Varese si porta a Masnago, sulla sinistra, di fronte alla storica sede della Ditta.
Era divisa in due parti. Una, grande, per gli operai e gli ‘intermedi’, l’altra di superficie molto più ridotta, era riservata agli impiegati.
La categoria degli ‘intermedi’, oggi non più esistente, raggruppava quei lavoratori dalle ibride mansioni, parcheggiati nel limbo aziendale in attesa di passare alla categoria impiegatizia nel fortuito caso che qualche ufficio, o la stessa direzione, ne avesse constatata la necessità, evitando così di attingere il personale dall’esterno. Vestivano una vestaglia nera e, come gli operai, rigorosamente in tuta blu, portavano sul taschino di sinistra lo stemma rotondo della Ditta. Gli indumenti di lavoro erano a carico del di-pendente il cui costo veniva trattenuto sul salario in due rate mensili.
Si poteva accedere alla mensa solo se muniti di “buono minestra” che veniva acquistato in blocchetti da dieci tagliandi dal ‘marcatempo’ o ‘segretario di reparto’ al simbolico costo di 250 lire, che veniva trattenuto sul salario liquidato il dieci di ogni mese, come parimenti avveniva per ‘ i colletti bianchi ’, gli impiegati, appunto.
Questi pranzavano a tavoli a quattro posti ricoperti con tovaglia che era rinnovata ad ogni inizio settimana così come il tovagliolo, arrotolato in un cerchio metallico numerato, uguale a quello posto al collo della bottiglia del vino applicato ad una catenella metallica.
All’inserviente che si presentava ai tavoli veniva comunicato il proprio nome che, spuntato dalla lista dei nominativi e completato dagli extra non compresi nel menù, doveva essere controfirmato dall’interessato.
Alla loro mensa gli impiegati potevano, previa autorizzazione dell’ufficio personale, invitare fornitori, visitatori o militari in missione.
Gli operai, in doppia fila, si muovevano verso due sportelli ubicati nella parete di fondo della sala dove, alla presentazione del ‘buono’, veniva lo-ro fornita una scodella in ceramica già colma di minestra ed un cucchiaio.
Si prendeva posto, casualmente, ai diversi tavoli allestiti nella sala sulla cui superficie, a distanze uguali, erano stati ricavati dei grossi fori per accettare le scodelle onde garantirne la stabilità, come si usava presso gli asili infantili.
Alla consegna del contenitore e del cucchiaio veniva loro consegnato il piatto con il secondo, scelto tra due alternative indicate su un foglio esposto a fianco dello stesso sportello, gli stessi per lo stesso giorno della settimana.
Separatamente, da un vicino tavolo, si prendevano forchetta, coltello e una rosetta di pane, per chi desiderasse accompagnare il pasto con un bicchiere di vino nero si pagava subito all’addetto il costo di 50 lire.
Bicchieri di maggiore capacità per l’acqua si trovavano già su tavoli accanto a grosse brocche di vetro.
E in entrambi le sale era permesso fumare. E quanto si fumava!
L’intervallo, uguale per tutti, era di un’ ora, dalle 12 e 30 alle 13 e 30.
Un giorno, verso la fine del pasto, consumato nella sala degli operai, sentii che il solito vociare che sempre saturava il luogo andava crescendo di minuto in minuto e tra le panche si notava una insolita animazione.
Terminato che fu il mio pranzo, lasciando la sala, notai che nel cortile un gruppo di operai si era radunato all’ingresso della mensa degli impiegati.
Uno di loro, evidentemente il più intraprendente e sicuramente il porta-voce degli altri, urlava, in nome dell’uguaglianza, di far revocare il privilegio agli impiegati di venire serviti al tavolo, di togliere loro tovaglia e tovaglioli e che facessero anche loro la coda agli sportelli.
Per non venire coinvolto preferii portarmi in anticipo in ufficio dove poco dopo, al rientro degli operai, attraverso la vetrata notai che quello balbuziente con cui iniziai a comunicare il mio primo giorno di lavoro (F86K), con cenni che non potevano essere fraintesi, mi invitava ad uscire.
Nel mentre lo raggiungevo, già immaginando cosa volesse comunicarmi, il collega a lui più vicino si mise alle sue spalle, attendendomi, mani ai fianchi, in un evidente atteggiamento non tanto raccomandabile.
Il primo, alzando il volume del suo normale tono, iniziò così a parlare:
-Par…chè, par…chè,… parchè te set mia fermaa a re…reclamàa? Eh?
Seguì un momento di silenzio, poi con la più controllata calma gli risposi che avrei senz’altro aderito se contrariamente a quanto richiesto si fosse rivendicata la tovaglia anche per gli operai, come per gli altri privilegi.
Mi guardò sorpreso come avessi detto uno sproposito, forse sarei stato più tollerato se avessi reagito, bestemmiando magari.
Poi, il primo, rivolgendosi al suo compagno rimasto in silenzio per tutto il tempo e agli altri sopraggiunti, con aria canzonatoria aggiunse:
-Te ca…capìi ? Quest chi l’è péna rivaa e già al valza la cresta!
Passarono ancora molti anni e molte cose cambiarono.
Gli intermedi sparirono, le mense si unificarono in un ordinato self-service.
Non ho mai visto però uno spreco così evidente come in quella nuova realtà, maggiormente commesso dal gentil sesso, tacco alto e calze in nylon, che riempiendo il vassoio di ogni portata, il ‘primo’ veniva solo assaggiato, del ‘secondo’ sbocconcellavano qualcosa, il pane non veniva quasi toccato.
Alla fine del pranzo alcuni dipendenti, noncuranti di essere osservati, passavano tra i tavoli a raccogliere il non consumato per portarselo via, forse per se stessi, la sera, forse per beneficenza o meglio per gli animali, a casa loro.
Poco distante da lì, da tempo, alcuni disagiati, destinati ad aumentare con il passare degli anni, si radunavano aspettando di essere accolti alla frugale mensa dai misericordiosi Frati Minori della Brunella.
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