“Vetiver” di Alfredo Tocchi
tratto da”La principessa del carnevale di Rio”- Aracne editore – diritti riservati
Ogni giorno per diciotto anni si era fatta la doccia dopo suo marito. Per la verità, non era stato proprio così: qualche volta l’avevano fatta insieme, quando la passione era ancora forte. Poi, l’abitudine aveva sepolto la passione sotto una coltre di monotonia. Facevano ancora l’amore, non molto spesso in verità, ma mai più sotto la doccia. Lui si alzava, si lavava, si radeva la barba e usciva dal bagno per andare a lavorare o semplicemente per cedere il posto a lei, lasciando dietro di sé una scia di vétiver.
Il lento nevicare dei giorni aveva attutito i sentimenti e lei attendeva impaziente che lui uscisse, per farsi carina con calma. Carina sì, per amor proprio. Mai civetteria, perché era una donna seria. Anche lui era un uomo serio, ma era vanitoso. Si spazzolava a lungo i capelli castani, nella speranza di ritardarne la caduta, indossava soltanto abiti fatti su misura e di sicuro eccedeva col profumo e non c’era verso di farglielo capire: “ È dopobarba. Lo metto fin dalla mia prima rasatura. Disinfetta la pelle, non posso metterne di meno.”
La verità è che si profumava già vestito, e tutto di lui sapeva di vétiver, soprattutto le camicie e i fazzoletti di batista con le iniziali e l’orlo cuciti a mano.
Ora lui non c’era più, se ne era andato. “ È inutile prendersi in giro, noi non ci amiamo più”, le aveva detto. Ma lei non lo aveva preso sul serio, perché sapeva che un uomo non lascia la sua casa, sua moglie e sua figlia per una sciocchezza come la fine di un amore. Tutti sanno che l’amore finisce, così è la vita. Con un po’ di fortuna, all’amore subentra l’affetto e tutto continua immutabile, perché l’uomo è un animale abitudinario e le comodità di una bella casa, conquistata dopo anni di sacrifici, non si gettano via in un impeto di sentimentalismo. Si sbagliava. Aveva fatto le valigie e se ne era andato a vivere in un bilocale in periferia. Il primo mese, lei ogni sera aveva pensato che lo avrebbe ritrovato a casa, tornando dal lavoro. Poi, a poco a poco si era rassegnata, in un modo strano e quasi animalesco: occupando tutti gli spazi. Aveva rimesso in ordine la casa – partendo dalla camera da letto e finendo addirittura in cantina – accatastando tutto ciò che apparteneva a lui e intimandogli di venire a riprenderselo. Ora aveva spazio per nuovi vestiti, armadietti del bagno tutti per sé, un letto matrimoniale dove stare di traverso – se le andava – e la libertà di mangiare e di guardare alla TV ciò che voleva, all’ora che voleva.
Sembra poco, ma forse è molto e in effetti non sono molte le vedove che muoiono di crepacuore: di solito sopravvivono venti trent’anni nell’eterno ricordo dei loro defunti mariti.
Dopo due mesi, l’unica a sentire la mancanza di quell’uomo fuggiasco pareva la figlia. Ma, si capisce, le figlie patrizzano e in più i due – padre e figlia – si somigliavano come due gocce d’acqua, non soltanto nell’aspetto.
Anche la vecchia cameriera ogni tanto domandava notizie del Dottore, ma più per educazione che per vero interesse, perché senza il Dottore – con le sue camicie e i suoi vestiti da stirare e le scarpe da lucidare tutti i santi giorni – il lavoro domestico era diventato leggero e riposante come un pisolino.
Insomma, tutto era cambiato in quella casa, ma nulla era cambiato. Nel bilocale, era un’altra storia: serate al ristorante o con un trancio di pizza davanti alla TV, letto sfatto, maglioni di cachemire ristretti e infeltriti dopo lavaggi sbagliati, una certa malinconia di fondo e la chiara percezione di non avere più il tempo per rifarsi una vita. In sintesi, la vita da naufrago che ogni uomo che si sia separato dopo anni di matrimonio ben conosce. Tutto questo non faceva che aumentare la vanità: i colpi di spazzola erano diventati cento, il dentista non aveva faticato a convincere il Dottore a sbiancarsi i denti, la vecchia station wagon era stata sostituita da una coupé e soprattutto aveva iniziato a radersi il pube – evitando però saggiamente le spruzzate di vétiver. Il tutto per fare colpo su ragazze un po’ troppo giovani e vistose con marcati accenti stranieri. Ma sarebbe ingiusto pensare che quel cambio di partner avesse a motivo la ricerca di seni e chiappe più sode, perché lui era un inguaribile romantico e continuava a dirsi: la prossima volta sarà per sempre. Ma il per sempre ha un prezzo, la monotonia, mentre il prezzo di un matrimonio finito dopo tanti anni è la nostalgia. Così ogni notte cercava sua moglie nel letto e non si dava pace per non averla cercata quando c’era. Come il personaggio di Marquez, si ripeteva: “Hai avuto l’amore in casa e non hai saputo riconoscerlo.” Poi, in uno sprazzo di lucidità, ricordava che l’amore era finito. Leggeva Parise: “La poesia va e viene, vive e muore quando vuole lei. Un poco come la vita. Soprattutto come l’amore.” Sì, l’amore se ne era andato quando aveva voluto, ma forse la colpa era anche un po’ sua, perché l’amore è un sentimento vivo, che deve essere alimentato, per non morire. Aveva smesso di parlare con sua moglie e ora, solo al tavolo del ristorante o nel triste bilocale, capiva che la comunicazione verbale viene prima di tutto – anche di quella fisica. Il risultato finale era che aveva scambiato l’affetto con la nostalgia, e col senno di poi capiva di averci rimesso.
Lei queste cose non le pensava. Forse l’istinto di sopravvivenza, o lo spirito di adattamento, erano più forti del sentimentalismo. Forse, sapeva di non avere scelto e quindi poteva dare tutta la colpa a lui o forse, semplicemente, la donna è più prosaica dell’uomo.
Eppure, una domenica mattina di giugno si svegliò, andò in bagno e pianse, perché all’improvviso si era accorta che dalla sua vita era scomparso per sempre il profumo di vétiver.
Molto carino quanta verità e quanta classe in ogni dettaglio